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Il Ricordo e il presente

Dieci anni fa, grazie alla legge n.92/2004, è stato dedicato il 10 febbraio al Ricordo dell'esodo istriano, fiumano e dalmata e della tragedia delle foibe, in cui perirono decine di migliaia di italiani, vittime della pulizia etnica ideata e perseguita dal maresciallo Josip Broz, meglio noto come Tito.
La data ricalca quella del Trattato di Parigi che, il 10 febbraio 1947, sancì il passaggio definitivo della penisola istriana (con le città di Pola, Parenzo, Rovigno), di Fiume e della Dalmazia (con la città di Zara), per un totale di 7.700 chilometri quadrati, costringendo all'esodo tutti coloro che volevano restare italiani e temevano le ritorsioni del nazionalismo jugoslavo.

                                  

Possiamo leggere, nel libro di Arrigo Petacco L'Esodo, l'ammissione di Milovan Gilas, vice-primo ministro jugoslavo e membro del Cominform
«Nel 1945 io e Kardelj fummo mandati da Tito in Istria a organizzare la propaganda antitaliana. Si trattava di dimostrare alle autorità alleate che quelle terre erano jugoslave e non italiane. Certo che non era vero. O meglio lo era solo in parte, perché in realtà gli italiani erano la maggioranza nei centri abitati, anche se non nei villaggi. Ma bisognava indurre tutti gli italiani ad andar via con pressioni di ogni tipo. E così fu fatto»
Sul finire della Seconda guerra mondiale infatti, mentre tutta l'Italia veniva liberata dall'occupazione nazista dalle truppe alleate, a Trieste e nell'Istria la "liberazione" avvenne ad opera dell'esercito jugoslavo guidato dal macellaio Tito, che poté imperversare indisturbato e dare sfogo al suo disegno di annessione e slavizzazione di tutta la Venezia Giulia, di Fiume e della Dalmazia.
Tito, totalitarista, comunista e nazionalista, fu capo indiscusso di un regime che immediatamente dopo la guerra attuò un dura repressione politica e ideologica, come ricorda l'ex dirigente triestino di PCI e PDS Stelio Spadaro: chiuse i luoghi di culto, le sedi di partito, tolse la libertà di parola, piallò ogni forma di diversità etnico-linguistica, chiudendo molte delle scuole di lingua italiana, controllò ogni respiro della società attraverso un servizio segreto chiamato Ozna, istituì campi di concentramento di cui quello di Goli Otok è stato tristemente il più celebre. 

A questo pazzo criminale, peraltro, l'Italia conferì nel 1969 l'onoreficenza di cavaliere della Repubblica, nonché un estremo saluto attraverso la partecipazione ufficiale ai funerali di Stato dell'allora presidente Pertini, protagonista della Resistenza, che si astenne in tutto il suo mandato presidenziale invece dal visitare la Foiba di Basovizza.

L'effetto dell'accanimento titino è presto detto: su 502.124 abitanti di quelle terre, circa 350.000 italiani fuggirono in Italia, abbandonando la loro terra e in molti casi disperdendo definitivamente l'unità famigliare e di affetti. Secondo i dati raccolti nel volume Il rumore del silenzio: la storia dimenticata dell'Adriatico Orientale (a cura della Lega Nazionale - Trieste, della Presidenza della Provincia di Roma, della Fondazione "Ugo Spirito", 2001) ottantamila raggiunsero le Americhe e l'Australia, centomila vennero accolti in Friuli-Venezia Giulia, gli altri furono ricoverati nelle baracche di 109 campi profughi, dal Carso alla Sicilia. I miei nonni con mia zia di dieci anni e mia mamma di sei, abbandonate le campagne vicine a Piemonte d'Istria, finirono a Gaeta.

Sempre nello stesso volume sono consultabili alcune delle cifre riguardanti l'esodo che interessò i centri abitati a stragrande maggioranza di popolazione italiana.

Città
abitanti 
profughi
Lussingrande 
1.992
1.500
Cherso 
7.570
6.000
Fiume 
60.000
54.000
Capodistria 
15.000
14.000
Cittanova 
2.515
2.025
Rovigno 
10.020
8.000
Zara 
20.055
18.000
Lussinpiccolo 
6.856
5.850
Pola 
34.000
32.000


Del resto Quando l’etnia non va d’accordo con la geografia, è l’etnia che deve muoversidiceva Benito Mussolini, mani grondanti di sangue durante l'occupazione italiana della Jugoslavia e pesantissime responsabilità di aver suscitato un forte sentimento anti-italiano tra gli sloveni e i croati. Una condotta criminale che pagarono molti innocenti.

Ma nonostante le proporzioni di questa tragedia, una delle più immani della storia italiana, forse la più grande se pensiamo che le persecuzioni avvennero principalmente in tempo di pace, calò un colpevole silenzio sull'intera vicenda, che venne sottratta alla conoscenza dei più. Equilibri internazionali e interni, forse l'esigenza di coesione nazionale di una Repubblica nata dalla Resistenza, in cui si sosteneva di aver sconfitto il Fascismo e, a fianco agli Alleati, di aver vinto la guerra, mal si conciliava con la mutilazione del territorio nazionale e la persecuzione dei propri cittadini da parte di un formale alleato della fase bellica.

Solo dopo la caduta del Muro di Berlino e la fine della Prima Repubblica, in Italia si è potuto fare luce sulla vicenda e sentire ammissioni prima parziali e poi sempre più convinte da parte sia di molta della storiografia ufficiale che di esponenti storici della sinistra italiana: ai fatti via via è stato dato il giusto riconoscimento, consentendo che non fosse più solo una rivendicazione dei soli esuli o il tema caro solo a una parte politica che si identificava nell'orgoglio nazionale, ma che divenisse un patrimonio collettivo.


La legge che istituisce il Giorno del Ricordo venne approvata con largo concorso delle forze politiche presenti in parlamento , responsabilizzando le istituzioni a diffondere la conoscenza dei fatti e a valorizzare un patrimonio culturale che abbiamo rischiato di smarrire. Un successo di cui vanno riconosciuti molti meriti al primo firmatario della proposta di legge, il triestino di origini istriane Roberto Menia.
Solo quindici furono i voti contrari alla Camera, provenienti da alcuni big di allora come Armando Cossutta, l'ex ministro Oliviero Diliberto e Marco Rizzo (che dimostrò maggiore commozione di fronte alle morti di Kim-Jong-il e Hugo Chavez), ma anche protagonisti dell'attuale scenario politico come il governatore Nichi Vendola e il sindaco di Milano Giuliano Pisapia.

Il 10 febbraio 2005, per iniziativa del Ministro per gli italiani nel mondo Mirko Tremaglia, si tenne a Trieste il primo Convegno Mondiali degli Esuli istriani, fiumani e dalmati, in occasione del quale ritornarono nella Venezia Giulia migliaia di ex profughi dalle Americhe e dall'Australia, molti dei quali non avevano mai fatto ritorno in Patria prima di allora. Un riconoscimento forse tardivo ma assolutamente necessario nell'ottica di una pacificazione nazionale in via di completamento.

Oggi è legittimo interrogarsi sul significato di questa giornata, fermarsi a deporre un fiore o in raccoglimento davanti alle lapidi e ai monumenti dedicati alle vittime di queste tragedie diventa un'importante occasione di condivisione di tutta una comunità nazionale, una riflessione sulla storia, sui valori non negoziabili, sui diritti umani, civili e di cittadinanza. 
Abbiamo il dovere di ricordare le barbarie del Novecento, innescate da infernali ideologie totalitarie che abbiamo sconfitto al prezzo di molto sangue e di molte lacrime. Il ricordo è prezioso e ricordare significa che "non permettere più che accada qualcosa del genere" diventa patrimonio collettivo. E c'è oggi in Italia chi vuole azzerare il patrimonio di una civiltà, attaccare le istituzioni, scassare la democrazia. Difendiamola pertanto da un caos che prefigurerebbe scenari troppo simili a quelli che hanno innescato le tragedie che oggi commemoriamo.

E se infine riflettiamo oggi su quante vittime fece un culto di nazione etnicamente pura e incontaminata dobbiamo pensare che nel mondo globalizzato le genti si continueranno a spostare, alla ricerca di maggiori libertà, benessere e felicità, portando con sé la propria cultura e i propri valori. Per i figli del terzo millennio la Patria, non sarà più il luogo dei padri, ma dovunque decideranno di vivere in armonia con le leggi, le tradizioni e le usanze del posto, dove costruiranno legami e magari contribuiranno a dare nuova dignità alla res publica. Dove il Novecento si studierà sui libri e non sarà materiale per dividere le coscienze in una disperata rincorsa al consenso.






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