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Quindici giorni per sconvolgere la (seconda) Repubblica

Undici giorni sono già trascorsi, quattro ancora da venire. L'insostenibile immobilità del quadro politico italiano, perfetto riflesso dell'incapacità di opporsi al declino economico e sociale del Belpaese, sembra essere attraversata da una scossa.
Timidi vagiti, elettroshock o esalazioni di ultimi respiri? Tra poco lo sapremo, certamente i partiti protagonisti della seconda Repubblica e i rispettivi leader soffrono di una irreversibile perdita di consensi e credibilità che li predispone ad un prossimo collasso.
Scavando in un'ipotetica agenda, le note che sembrano indicare in queste due settimane il punto di non ritorno e di frattura dei fragili equilibri sono le seguenti:



Montezemolo e Riccardi "Verso la Terza Repubblica".
Il presidente della Ferrari, dopo aver lanciato l'omonimo manifesto, il 17 novembre raduna a Roma i fedelissimi di Italia Futura assieme a un corollario di associazioni riformiste come Verso Nord (area Cacciari), Indipendenti per l'Italia e Zero Positivo. Co-organizzatore il ministro Riccardi che porta in dote una fetta importante di associazionismo cattolico: oltre alla Comunità di Sant'Egidio, aderiscono le Acli e il sindacato Cisl.
In quella sede viene annunciato un progetto elettorale che faccia da nuovo punto di riferimento per laici e cattolici, rivolto ai liberali, ai riformisti e ai popolari. Settemila presenti e un buon radicamento sul territorio sembrano dare solidità al progetto, l'assenza di una leadership e l'insistenza su un patrocinio dai contorni non definiti di Mario Monti rendono più nebuloso il messaggio.
Nessuna apertura verso Berlusconi e Alfano, non invitati Casini né Fini.
I botta e risposta a colpi di agenzie tra la pasionaria Rosy Bindi e il presidente Acli Andrea Oliviero testimoniano la tensione tra i cristiano-sociali del PD che rischiano di veder svanire bacini di preferenze e di tessere. 

Il PDL prossimo allo sbriciolamento.
Angelino Alfano lancia le primarie per rivitalizzare il partito: il risultato è una barzelletta con candidati che neanche al circo Barnum (Santanché, Mussolini, Sgarbi, Samorì, Meloni tra gli altri). Poi pretende di non confrontarsi con gli indagati, gentaglia come quella che lo ha messo a capo del partito e che ha soccorso con voto parlamentare in più di un'occasione. Poi ci ripensa e se torna Berlusconi le primarie non servono. 
Il padre padrone però stavolta è a un passo dal liquidare il partito per rifondare Forza Italia, convinto che le due strutture possano intercettare il 30%, in realtà i sondaggi darebbero le macerie del PDL al 4,5% e la lista berlusconiana (con pochi fedelissimi e qualche giovane amministratore locale) al 6-8%. Per gli ex AN in particolare sembra giunto il canto del cigno.
Berlusconi tergiversa in attesa dei risultati delle primarie di "Italia bene comune": una vittoria di Renzi lo renderebbe anagraficamente impresentabile e renderebbe improponibile la sua vulgata muscolarmente anticomunista; viceversa un successo di Bersani potrebbe consentirgli ancora spazio di manovra per essere determinante negli equilibri della prossima legislatura.

Bocchino il fine stratega politico.
Italo Bocchino con due mosse delle sue si accanisce sull'agonia di FLI. Capolavoro l'endorsement ad Alfano sul tema della legalità, prefigurando una reunion gloriosa nella prossima legislatura con un PDL depurato dai malandrini. Poi in Calabria si accorda con il cristallino Scopellitti, incassando le dimissioni della coordinatrice regionale Angela Napoli, una che le battaglie legalitarie le fa sul serio. Sabato prossimo FLI ha in programma la convention di entrata nella Lista per l'Italia, progetto il cui azionista di maggioranza Pierferdinando Casini non se la passa neppure egli bene: l'ondivaga azione politica, il calo di consenso nei confronti del governo Monti e la concorrenza montezemoliana sembrano ridimensionarne peso, spazi e consensi. Insomma il listone Casini-Fini è tutto da decifrare nelle scelte e nella (ri)presentabilità degli uomini.


L'effetto Renzi sul futuro del PD.
Il primo turno delle primarie di "Italia bene comune" consente di dire che Matteo Renzi ha vinto la sfida del rinnovamento. Appoggiato dal 2% dell'apparato PD ha ottenuto quasi il 36% dei consensi. Più di 1 elettore su 3 che si riconosce nell'area rappresentata dai democratici e dal partito di Vendola ha votato per un candidato che ha vergato un programma all'insegna di liberalizzazioni, riduzione delle imposte, sburocratizzazione della PA, valutazione e premialità per gli insegnanti, innalzamento delle tasse universitarie con accesso al prestito agevolato, adozione della flexsecurity e mantenimento della riforma pensionistica Fornero. Un candidato che ha preso le distanze dalle posizioni in politica estera di Bersani e Vendola, firmatari di un appello favorevole alla costituzione di uno stato palestinese.
Insomma il PD che vola nei sondaggi lo fa grazie alla discontinuità, tanto dal punto di vista della comunicazione quanto da quello dei programmi, del giovane sindaco di Firenze. Un processo con cui sta ibridando l'elettorato e i punti di riferimento di quest'ultimo, ma soprattutto attraverso il quale sta rivelando la cosa più importante di tutte: che anche il mastodontico apparato dell'unico vero partito italiano (gli altri sono oggettivamente tutti movimenti leaderistici) non conta più nulla al di fuori dal mero aspetto organizzativo.
Se domenica a Renzi riuscisse la remuntada, il PD a trazione socialista alleato con SEL sarebbe messo in soffitta e si incamminerebbe verso un riformismo blairiano contro la volontà delle gerarchie del partito. Si aprirebbe insomma una crisi d'identità politica e i mali di pancia degli ex diessini aprirebbero spazi a nuovi scenari sulla rive gauche. 
Ma anche una vittoria di Bersani vedrebbe un day after difficoltoso: con Matteo Renzi e il suo capitale di consensi (che il sindaco non vorrà dilapidare) bisognerà scendere a patti per scongiurare sirene scissionistiche o un disimpegno che potrebbe fare emigrare altrove i suoi sostenitori. La strategia soft di Bersani potrebbe essere quella di riconoscere lo strepitoso risultato di Matteo Renzi come espressione di rinnovamento nei volti, glissando su contenuti e programmi: in tal senso gli verrebbe offerta sul piatto la testa dell'acerrima nemica Rosy Bindi (sempre più nervosa in quanto irrilevante nel partito come catena di trasmissione con il mondo cattolico), e/o concedendogli peso decisionale nella scelta degli uomini da candidare soprattutto alla Camera. 

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