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Il Polo che non c'è

post tratto dal mio blog Polis, Policy, Politics su Il Futurista

Quello che sta accadendo a livello locale, in questa fase che precede le prossime elezioni amministrative, ci sta dicendo una cosa: il Terzo Polo resta sostanzialmente un luogo inespresso della geografia politica italiana. A incominciare dal nome, per alcuni Nuovo Polo (gli “innovazionisti”), per altri Polo della Nazione (i più patriottici), ma anche Alleanza Popolare (i centristi): fatto forse banale ma un soggetto politico per esistere davanti agli occhi dell'opinione pubblica deve avere uno e un solo nome.



Dalla confusione sul nome a quella sulle strategie di breve termine il passo è breve. Per quanto lo sgretolamento del bipolarismo muscolare che ha contraddistinto la seconda Repubblica - avvenuto negli ultimi anni col posizionamento terzo dell'UdC - abbia scisso le dinamiche politiche nazionali da quelle locali, la rincorsa del Terzo polo verso il voto politico del 2013 dovrebbe trovare benzina nella elezioni amministrative della prossima primavera, quando saranno chiamati alle urne oltre 9 milioni di italiani e si eleggeranno, tra gli altri, i sindaci di Palermo, Genova, Verona, Taranto e Parma.

A quanto pare invece l'unità politica professata da Casini, Fini, Rutelli e Lombardo prosegue finalizzata all’appuntamento elettorale delle Politiche, ma non trova automatici riscontri sul territorio dove i singoli movimenti vanno a esporsi in alleanze, civismi e candidature frutto di strategie raramente condivise. Così le cronache, da Palermo a Gorizia passando per Verona, ci descrivono fughe in avanti, retromarce, veti, scomuniche che rischiano di avere conseguenze quali ridare ossigeno ai pachidermi agonizzanti del Pd e del Pdl, tenere lontani dalle urne i moderati e i riformisti, aumentare un disorientamento che finisce per ingrassare il voto di protesta.

Se l'obiettivo dei partiti confluiti nel Terzo polo era quello di consolidarsi come coalizione alternativa tanto all'alleanza di Vasto quanto allo schieramento che sostenne Berlusconi fino all'inabissamento, il test delle amministrative sarebbe potuto essere davvero probante, anche perché avrebbe messo in luce debolezze e lacune con cui Bersani e il ventriloquo che muove Alfano dovranno fare i conti. Da una parte l’affanno del Partito Democratico, premiato dai sondaggi ma non dai risultati delle primarie, in cui emerge lo scollamento tra la volontà della base e le scelte della dirigenza; dall'altra il Popolo della Libertà che, finita la liaison col Carroccio, si ritrova isolato.

L'occasione era ghiotta sia per dare un messaggio di rottura con i riti della Seconda Repubblica, presentando facce nuove e candidature condivise con la cosiddetta società civile, sia per innescare il ridimensionamento, se non l'implosione, dei due partiti principali. Se però a livello locale, con l’avvallo dei vertici nazionali, ognuno decide per sé e si allea con il Pdl o il Pd in base alla convenienza politica, all’obbiettivo elettorale e/o alle conflittualità politiche del contesto, l’obbiettivo sopra esposto si vanifica.

Eppure sarebbero bastati pochi accorgimenti condivisi: nei piccoli centri si sarebbe dovuto appoggiare il candidato sindaco altrui solo in assenza di liste di partito e con la confluenza di tutti in una lista civica; nei comuni principali non ci si sarebbe dovuti alleare con il sindaco uscente ma solo a sostegno di una candidatura che sia espressione di netta discontinuità con le consorterie localmente nutrite dai due partiti maggiori.

Altrimenti il rischio è di diventare semplici portatori d’acqua, di non ottenere visibilità né riconoscimento del progetto e di consolidare anziché erodere le strutture di Pd e Pdl. E di risvegliarsi una mattina di primavera pensando che tutto è da rifare.

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