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Non è un paese per lavoratori


Le recenti cronache agitano sinistre e amare conferme sulla paralisi che blocca sistemicamente l’Italia, un Paese incapace di comprendere la modernità e di cogliere le opportunità innescate dall’innovazione tecnologica, in cui è sempre più ampio lo spread tra insider e outsider, tra chi erge barricate a difesa di consolidate rendite di posizione e chi, ottimizzando l’utilizzo delle nuove tecnologie, lotta per costruirsi un presente e magari un futuro.



È di ieri la sentenza del tribunale di Milano che, nell’ormai celebre diatriba tra Uber e i tassisti, ha messo fuorigioco l’azienda americana, capace attraverso una semplice applicazione (Uber-pop) scaricabile sullo smartphone di consentire agli utenti di prenotare una corsa scegliendo tra gli autisti disponibili, dei quali è consultabile la valutazione fornita dai precedenti clienti.


La decisione dei giudici milanesi di bollare come concorrenza sleale l’attività del disruptor californiano lascia perplessi, se non sconcertati. Tra le motivazioni della sentenza viene fatto riferimento all’assenza di titoli autorizzativi da parte degli autisti di Uber-pop, contrariamente a quanto previsto dalle leggi sui servizi di trasporto pubblico. Benedetta Arese Lucini, country manager italiana di Uber, ha immediatamente ricordato che le norme di riferimento risalgono al 1992, epoca pre-smart-technology, in cui la diffusione di telefoni cellulari e lo sviluppo del web erano ancora di là da venire.


Come se non bastasse, a sostegno della sentenza di concorrenza sleale, si legge che, Uber-pop, dall’assenza di costi inerenti al servizio taxi, trae un vantaggio che gli consente di applicare tariffe sensibilmente inferiori. Il contenimento dei costi volto a offrire i medesimi servizi a prezzi più bassi diventa una colpa, si sbriciolano le fondamenta della libera concorrenza. Insomma, se la rivoluzione tecnologica corre più veloce dell’attività legislativa tanto peggio per la prima (come se si arrestasse a colpi di sentenze) e se un quadro normativo superato consente il mantenimento di rendite a danno del cittadino-consumatore tanto peggio per quest’ultimo.

Uno schiaffo all’Antitrust che nel luglio scorso si era espressa in favore di una abolizione degli elementi di discriminazione competitiva tra i taxi e il servizio di noleggio auto con conducente, alludendo chiaramente a uno scenario alle possibilità offerte dall’innovazione tecnologica. Uno schiaffo anche alla libertà d’impresa che, attraverso l’innovazione, ha tentato di portare, a tutto vantaggio del cittadino, un’iniziativa concorrenziale nel settore rigido e ultraregolamentato del trasporto locale non di linea.

Va ricordato che la regolamentazione del settore (che prevede emissione di licenze e definizione delle tariffe) è attualmente prerogativa assoluta della politica locale, luogo in cui operano sindaci e amministratori molto attenti alla costruzione e al mantenimento di un consenso che ambiscono a tradurre in voti, legittimando così l’energico ostruzionismo di una corporazione compatta ed energicamente arroccata a difesa dei propri interessi. L’affermarsi di attività che sfruttano piattaforme innovative e strumenti tecnologicamente avanzati per la fornitura di servizi rappresenta pertanto un’occasione per limitare lo strapotere del regolatore pubblico e il monopolio dei suoi concessionari. 


Due realtà al momento chiuse in trincea a festeggiare la vittoria di una battaglia, convinte di poter fermare un progresso veloce, creativo e imprevedibile invece di raccogliere la sfida dell’innovazione nella gestione del servizio (magari aggiornando i canali attraverso cui prenotare la corsa, rendendo trasparente il feedback dell’utenza, offrendo transazioni attraverso prepagate o carte di credito, applicando tariffe standard per aree di percorrenza) o della prestazione (perché non lavorare anche per gli operatori concorrenti?).

Che nell’Italia di oggi, clientelare e corporativa, alla vicenda Uber si reagisca facendo le barricate non stupisce; tuttavia l’impatto della discussione sull’agenda dei media e conseguentemente sull’opinione pubblica è un segnale incoraggiante, perché anche e soprattutto dal diffondersi di una cultura della concorrenza può iniziare il riscatto di un Paese con pochi ipergarantiti che tengono in ostaggio i moltissimi outsider.

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